La mente dell’alchimista,

tra mito e realtà [1].

 

di Elio Occhipinti

 

L’Alchimia rappresenta una forma di sapere che, strutturandosi nel tempo, ha esercitato una significativa influenza sui mondi della scienza, della filosofia e dell’arte. Pertanto, un approccio analitico a essa può avvalersi del contributo dell’epistemologia. Etimologicamente derivante dall'unione della parole greche epistemé e logos, cioè “scienza” e “discorso”, l’epistemologia è per l'appunto il “discorso sulla scienza”, sebbene sia più comunemente nota come filosofia della scienza. L’impiego però dello strumento epistemologico non afferisce l’uso e la teorizzazione accademica, ma piuttosto si ricollega all'anarchismo metodologico di Paul Feyerabend, che rappresenta l’impostazione forse più adatta ad affrontare quella che secondo i parametri della scienza accademica è l’a-scientificità dell’Alchimia il cui studio è possibile solo se chi vi si accinge riesce a infrangere le regole del pensiero, così come le ha da sempre concepite.

In quest’ottica l’Alchimia appare ben altro che un primitivo metodo scientifico, essa è un processo ermeneutico che, anziché ridurre e circoscrivere il proprio sapere, ha da sempre cercato di trovarne i limiti e di superarli spingendosi in quelle zone dell’essere che troppo spesso, superficialmente e denigratoriamente, sono state definite mitiche o mistiche.

 

Tuttavia il primo vero, e all'apparenza insormontabile, ostacolo su questa via è la difficoltà di comprenderne il linguaggio. Ed è proprio in merito al linguaggio che viene mossa all’Alchimia la critica maggiore da coloro che ne analizzano i testi cercando di trovarvi un nesso, un ragionevole denominatore comune capace di far emergere un senso logico e chiaro. Tentativo dico subito vano:  per quanti sforzi si faccia è infatti manifestamente vero che, oltre al diffuso uso di simboli e allegorie, sono pochi i punti in cui i testi concordano e moltissimi in cui sono invece in disaccordo. Cosa questa che sembra rafforzare le negative conclusioni semiologiche che Umberto Eco, tra i più qualificati studiosi di linguistica del nostro tempo, ha redatto nel suo libro I limiti dell’Interpretazione: «Il paradosso del discorso alchemico è che dice infinite cose ma allo stesso tempo ne dice sempre una sola – salvo che non è dato sapere quale sia.»

Ma partendo dal presupposto che almeno una parte degli alchimisti compilatori di testi o di “libri muti”[2] fosse in buona fede e conoscesse l’argomento di cui trattava, sorge la domanda su quale possa essere stata la loro intenzione  nel trasmettere in tale modo il loro sapere.

In effetti un motivo c’è ed è comune, seppure con leggere differenze, a tutte le “vie sapienziali”, in particolare: l’utilizzo di elementi testuali contradditori, di un linguaggio immaginifico e di una pratica considerata necessaria senza che ne vengano fornirne con chiarezza le linee guida. Questi elementi  infatti potrebbero essere momenti propedeutici non volti alla scoperta di una “ricetta” celata nel testo per fabbricare la Pietra Filosofale, ma un sistema per sollecitare la coscienza dell’apprendista a rompere gli abitudinari schemi logico-razionali e aprirsi a nuove possibilità di conoscenza, espandendo la propria visione della realtà e del cosmo.

Di fatto è quindi possibile affrontare questi testi utilizzando un approccio epistemico che tenga conto della “diversità” e “alterità” del sapere alchemico e come esso si configuri in un percorso di conoscenza assolutamente coerente e sotto certi aspetti innovativo.

Infatti, l’Alchimia, fondamentalmente radicata nel fare, ha indiscutibili pretese filosofiche  proprio perché si manifesta come un sapere per più aspetti “totale”, affine alla sapientia, e non certo inferiore ad altre prospettive filosofiche sviluppatesi tanto in Occidente quanto in Oriente.

 

L’Alchimia è filosofia fondata sull'experientia e punta non solo alla speculazione ma anche e soprattutto a operazioni effettive e concrete. È pertanto verosimile che le prime idee alchemiche si siano sviluppate all'interno degli ambienti dei metallurghi o “teurghi del fuoco” egizi. Questi erano “artigiani” avvolti dal mistero, sacerdoti o laici costretti a lavorare presso i templi, padroni delle tecniche per trasformare la materia vile in qualcosa di perfetto, capaci, ad esempio, di depurare l’oro da scorie e impurità.

Il pensiero originale che sottostà a tali operazioni è che le sostanze minerali nascano, crescano e vivano nella Terra, esattamente come gli embrioni degli esseri viventi. Il metallurgo assume così un carattere ostetrico, poiché, intervenendo nello sviluppo di questa embriologia sotterranea, egli interferisce nel ritmo di crescita dei minerali, accelerando il processo di maturazione per mezzo del fuoco e di ripetute purificazioni. Non a caso il metallurgo è originariamente identificato anche con un signore del tempo, capace, mediante le proprie tecniche, di  sostituirsi a poco a poco al tempo della Natura stessa.

Il convergere al di fuori delle cerchie sacerdotali delle conoscenze tecniche e del profondo anelito conoscitivo dei filosofi della Natura greci produce i primi abbozzi dell’ “Arte” alchemica e l’alchimia stessa sorse con buona probabilità da questo terreno, reso fecondo da un felice quanto fattivo connubio tra “artigiani” con aneliti metafisici e “sacerdoti” con attitudini e curiosità scientifiche.

Sono dunque da rintracciare proprio nei filosofi greci e nei loro epigoni le teorie che sostengono e formano il pensiero operativo e speculativo dell’alchimia, peraltro destinate a non modificarsi in modo sostanziale negli ultimi duemila anni.

In sintesi, malgrado le confusioni e le ambiguità, l’alchimia aderisce e accorda tanto la convinzione di un tutto strutturato secondo vari livelli proprio del neoplatonismo quanto la posizione stoica secondo la quale la psyche sarebbe strettamente connessa alla materia e nel mondo vi sarebbe una continua e reciproca compenetrazione di anima e di corpo. 

Ben distante quindi dalla semplice e limitata confezione di ricettari tecnici, l'alchimista compie il suo percorso sulla scorta di ben delineate teorie della Natura. Il suo lavoro è accompagnato da notevoli contenuti intellettuali ed etici, i suoi procedimenti mirano a manipolare la materia per poterne carpire le leggi segrete di composizione e, grazie a questa conoscenza, egli anela a realizzare nel suo laboratorio quella meravigliosa e perfetta sostanza chiamata mercurio filosofico, la chiave che successivamente gli permetterà di confezionare gli elisir e la medicina universale. Con questo straordinario composto l’alchimista potrà perfezionare i metalli vili, creare potenti medicine vegetali e minerali e, quel che più conta, egli avrà di fatto raggiunto la conoscenza dei segreti della Natura. In altre parole avrà accesso alla Sophia.

Ecco quindi un fondamentale elemento distintivo che evidenzia le profonde radici che collegano l'alchimia all'antica filosofia greca. L'essere alchimista-filosofo non consiste infatti soltanto nell'acquisizione di un sapere o di un saper fare ma anche e soprattutto di una sophia, atta a mettere in discussione se stessi, partendo dalla pressante e intima sensazione di non essere ciò che si dovrebbe essere. È la certezza, non teorica né astratta, di una scelta, di una decisione, di un sapere e di un saper vivere. In altre parole, l'alchimista superando la sua individualità si innalza all'universalità, non solo attraverso la manipolazione della materia ma attraverso l’evoluzione della coscienza e la messa in discussione di sé.

L’alchimia, radicata quindi nel fare così come nel cambiamento,  è un sapere con pretese di “totalità”, come dice Chiara Crisciani nel libro Il papa e l’alchimia:

 

«Totale si vuole l’alchimia in quanto punta a produrre un agente di trasformazione materiale che è universale: perfeziona infatti i metalli, i vegetali, l’uomo. L’alchimia è totale perché integra in inscindibile unità conoscere e operare: è una “filosofia del fare”; perché si propone obbiettivi di trasformazione non circoscritti ma universali, puntando a che tutte le cose possano attingere alla loro perfezione; è “totale” infine perché si avvale delle  intrecciate garanzie di tutte le forme di conseguimento di verità e efficacia: tradizione e testi, sensi e intelletto, ratio e experientia, nonché rivelazione e illuminazione.»

 

 

L’“atteggiamento” mentale dell'alchimista rappresenta da sempre un punto focale. Il suo procedere in modo attivo, mettendo alla prova le sue idee in laboratorio e ricreando i fenomeni naturali in condizioni controllate, tenta di cogliere le leggi a un tempo della natura e di se stesso. I continui e insistenti riferimenti alla partecipazione totalizzante all'Opera, a una attenzione focalizzata, alla capacità di riflessione e di meditazione sui processi, allo sviluppo dell'immaginale accanto alle facoltà razionali, spostano considerevolmente l'attenzione dai processi tecnici a quelli mentali.

In alchimia l’universo appare come un tutto dinamico e inseparabile che comprende e coinvolge l’osservatore nella sua totalità. Per gli alchimisti i concetti tradizionali di spazio, tempo, causa, effetto perdono di significato, essi sono consapevoli dell’unità e della mutua interrelazione di tutte le cose e di tutti gli eventi, alla luce della constatazione di come tutti i fenomeni nel mondo siano manifestazioni di una fondamentale organicità: ogni evento assume valore in relazione all'osservatore umano e alla sua coscienza. L’alchimista sa quindi che il verificarsi di taluni processi è determinato dalla sua osservazione e dalla sua partecipazione agli stessi. Di conseguenza, la conoscenza  alchemica non può essere raggiunta attraverso la semplice osservazione, essa richiede necessariamente la totale partecipazione e intenzionalità del suo operatore.

L'alchimista procede quindi con un proprio metodo scientifico, un vero e proprio circolo ermeneutico. Egli, però, anziché ridursi a conoscere solo ciò che è possibile misurare, pesare, quantificare, dà spazio, accanto alle operazioni di laboratorio, alle intuizioni, ai salti logici, alla creatività e all'immaginazione.

 

«Si tratta di una disciplina, che [...] non si lascia affatto disciplinare, cioè non si installa nei definiti confini della collocazione – di una ars, di una scientia tra tante – che le potrebbe spettare. Spicca tra questi aspetti anomali, ed è causa senz'altro radicale della diversità e quindi della non integrabilità del progetto alchemico il suo presentarsi – e fin dai primi testi tradotti – come una filosofia fondata sull'experientia, e che punta non alla speculazione ma a operazioni effettive e concrete. Altro paradosso dunque per i filosofi scolastici: l’alchimia è sapere sulla natura che si realizza con operazioni manuali, nei cui esiti è il suo criterio di verità.»[3]

 

A questo punto del discorso possiamo adesso riconsiderare la natura epistemologica del linguaggio alchemico. Sappiamo innanzitutto che esso non denota fatti e parole “scientificamente” verificabili e che al contempo non è il semplice frutto di “fantasie” di perditempo. Non ci allontaniamo troppo dalla verità se osiamo affermare che i testi alchemici sono tentativi per comunicare delle informazioni sulla natura dell’alchimia e sulla sua operatività attraverso un linguaggio diverso, non razionale, strutturato in un sistema che costringe il praticante a considerare l’universo concettuale nel quale vive in modo più ricco e articolato.

Non pare esservi alternativa: solo assumendo la prospettiva dell’alchimista è possibile giungere a comprendere l’universo dell’alchimia e a valutarne l’originalità.

Sotto il profilo metodologico, la posizione dell’alchimista è piacevolmente interessante: se di fronte al nuovo e al diverso la risposta della ragione statica e dogmatica è sempre la stessa, l’esclusione, sono proprio le incursioni ai confini che sfidano l’intelligenza a rimodellare le conoscenze, passando attraverso la violazione sistematica degli standard più accreditati.

Per tutti questi aspetti possiamo osservare che l’Alchimia è un sistema di pensiero fondamentalmente ottimista, capace di sciogliere tutte le contraddizioni della logica occidentale.

Per concludere, in un mondo, come quello attuale, dove la scienza e la tecnologia creano una distanza sempre maggiore tra l’uomo e la Natura, lo studio dell’Alchimia può aiutare a conoscere i propri limiti di soggettività, senza temerli, ma anzi riconoscerli apertamente. Essa inoltre può aiutare a non confondere la cultura basata solo su nozioni e letture con la vera conoscenza: sono infatti le incursioni ai confini del nostro sapere che permettono di esplorare nuovi territori di sé e della Natura.

 

 

[1]   Questo articolo è una sintesi del libro dell’autore: I filosofi del fuco, edizioni Mimesis.

[2]    Il “libro muto” è un’opera che contiene essenzialmente immagini, vedi ad esempio il Mutus Liber attribuito ad Altus.

[3]     Crisciani Chiara, Il papa e l’alchimia.