Incanti e tormenti dell’amore

la problematicità come via di conoscenza dell’altro

 

 

Chi di noi non ha una ben precisa idea di come dovrebbe essere la nostra vita di coppia per renderci felici e appagati? Chi di noi non si impegna, non scende a compromessi, non rinuncia, non si sforza di comprendere con lo scopo di realizzare l’ideale che porta in sé? Eppure, malgrado queste ferme convinzioni e strenui sforzi, spesso la relazione di coppia, che era nata sulle ali dell’entusiasmo e del convinto amore, finisce nel rancore, nel disprezzo, se non addirittura nell'odio. 

Che cosa non riusciamo a capire? Cosa ci sfugge nell'intricato gioco di Eros e Amore? Possiamo tentare una risposta a questi interrogativi analizzando uno dei miti fondamentali che determinano il nostro modo di immaginare una felice relazione di coppia: il mito dell’unione degli opposti. Per intenderci, l’ideale dell’intima fusione di due individualità per formarne una terza, la coppia: nessun segreto, totale condivisione, piena partecipazione alla vita dell’altro/a, niente più “mio” e “tuo” ma solo “nostro”.

È interessante notare che questo mito ha più una radice religiosa che  sociale, sembra manifestare il desiderio di un’unione perfetta e indivisibile con il divino, il superamento della diversità e dell’incompletezza originaria. L’altro/a è il mio complemento, la mela, che, divisa a metà, viene finalmente riunita qui ed ora, in questo spazio e in questo tempo. La psicanalisi direbbe che tutto ciò risponde al desiderio di regressione al grembo materno, al desiderio di indifferenziato. Razionalmente, sappiamo che questa realizzazione è illusoria, eppure il desiderio di attuarla è molto più forte e ci spinge in questa direzione. Comprendiamo anche che l’introduzione del concetto di polarità nella vita amorosa è destinata a generare tremende delusioni e frustrazioni, perché assume già in se la presenza di una diversità separata che deve essere superarla in nome della mitica unione. 

Avete mai riflettuto invece che nella realtà ciò che possiamo unire è solo ciò che è uguale? E guarda caso molte delle ricerche condotte sulle coppie sposate che dopo anni continuavano nel loro percorso hanno evidenziato che le relazioni più durature, ma non è detto che ciò sia sinonimo di felicità, sono quelle formate da coppie con interessi comuni, o che provengono da classi sociali simili, oppure che hanno avuto un’educazione simile. Coppie cioè che nella loro vita di relazione e nel loro rapportarsi con l’esterno condividono la stessa visione del mondo, e in genere, proprio per evitare di far insorgere una qualsiasi tensione, tendono a non modificare mai questa loro visione. In caso di rottura è facile sentire da uno dei due “non so perché è successo, non litigavamo mai, non avevamo nessun problema!”. Quindi, senza entrare nel merito del vissuto di felicità e di soddisfazione che il singolo vive all'interno della coppia, possiamo affermare che hanno molta più probabilità di rimanere molti più anni insieme le coppie di partner “uguali”, coppie dove le differenze sono presenti al minimo sin dall'inizio, dove però il cambiamento interno o esterno è vissuto come pericoloso.

Molto più conflittuale e dinamica è la vita delle coppie che hanno modelli culturali o interessi diversi. Se all'inizio del rapporto è facile accettare la diversità, con l’andare del tempo diventa sempre più difficile comprendere e quindi giustificare le differenze. Le coppie con diversi modelli culturali, con educazione differente, sono allora destinate all'infelicità? 

In questo tipo di coppie si parte spesso dalla convinzione che solo uno sia il modello valido, il nostro. Vuoi per presunzione, per esperienza o perché qualcuno ha assicurato che è così, si è convinti che l’altro/a sarà felice con noi quando rinuncerà al proprio modello.  Ovviamente la delusione è quasi inevitabile, perché in una coppia sono almeno due gli ideali a incontrarsi e scontrarsi e, alla fine, l’amarezza che queste coppie provano  è  dovuta al fatto che o uno dei due ha costretto l’altro ad accettare il proprio “sogno” oppure soffre nel sentirsi imprigionato nel “sogno” dell’altro.

È facile in questi casi sentire frasi del tipo:”Non ci credo più!”, “È meglio stare da soli!”, “Non mi faccio più fregare!”. I rapporti statistici sulle separazioni stanno ad indicare che questo è il tipo di relazione più frequente e non sempre con l’andare del tempo e con nuove esperienze si riesce a trovare un partner con cui sentire di stare bene.

Questo tema può essere affondato anche da un punto di vista più filosofico. Se, infatti, la psicologia ci aiuta a comprendere la possibile origine del malessere, essa ci dice poco o niente sul senso di questo grande gioco della vita.

Un’importante constatazione che si può fare è che la problematicità è uno degli aspetti più ricorrenti del vissuto umano. Certo, la stragrande maggioranza delle persone desidererebbe non avere problemi o tutt'al più solo alcuni e di facile soluzione; eppure, sono proprio i problemi e la lotta per trovare una via d’uscita che costellano la vita umana, e sono sempre i problemi a farci riflettere su quanto la nostra vita sia intensa e ricca di avvenimenti lontani dalla solita routine. Qualcuno arriva anche ad affermare che sono proprio i problemi a tenerci in vita!

Queste considerazioni potrebbero indurci ad affermare che una coppia con delle problematicità è molto più viva di una che apparentemente ne è priva. Inoltre, è interessante notare che in psicologia la bontà di una coppia si misura non sull'assenza dei problemi ma sulla capacità di affrontarli, visto che di problemi ce ne sono sempre.

Proviamo allora a spostare la nostra riflessione sul processo psichico e mentale che mettiamo in atto nell'affrontare la problematicità. In generale possiamo esser d’accordo che quando incontriamo un problema, quando ci troviamo di fronte a qualcosa di diverso, quando ci rendiamo conto della difficoltà di affrontare una situazione, attiviamo buona parte delle nostre risorse per superare questo stato di disagio. Ebbene, sono proprio questi momenti che ci danno l’opportunità di fare qualcosa di diverso dal solito, di imparare nuovi modelli di comprensione o di azione, che ci inducono, in altre parole, a “cambiare”. Vi ricordate la famosa massima del tempio di Delfi, che fu ripresa dai socratici, “conosci te stesso”? Forse il punto nodale di tutto ciò che fino ad ora abbiamo detto è proprio questo: se la nostra vita è solo un tentativo di rimanere sempre uguali a noi stessi, di evitare tutto ciò che ci mette in difficoltà, di accettare solo ciò che non ci fa male, allora questa massima non fa per noi. Se, invece, siamo consapevoli della straordinaria caoticità ed indeterminatezza della nostra vita, quella emozionale innanzitutto, possiamo utilizzare questo detto come una linea guida, e scoprire che una magnifica opportunità di conoscenza di noi stessi ce la offre, strano ma vero, il rispecchiarci nel mondo e nell'altro. È proprio attraverso il confronto con l’altro, attraverso la capacità di metterci nei suoi panni, soprattutto quando sono tanto diversi dai nostri, attraverso il coraggio  di mostrarci per quello che siamo, che si nasconde la possibilità di conoscere qualcosa in più, qualcosa di diverso e di nuovo di noi stessi. 

Ecco, allora, che anche i momenti di conflitto, di delusione, di sofferenza diventano delle bellissime occasioni di apprendimento e di cambiamento. Impariamo, ad esempio, a riconoscere che buona parte di questa infelicità è dovuta a ciò che abbiamo “proiettato” sull'altro: quante aspettative, quanti desideri, quanti bisogni si pensa che l’altro debba soddisfare al posto nostro! Chiariamo subito che tutto questo è “normale”, non sentiamoci in colpa quando scopriamo di averlo fatto, di esserci ricascati; semplicemente, accettiamolo, è un buon momento per conoscerci meglio, per comprendere i punti limite, le imperfezione, le peculiarità, in altre parole per scoprire in noi la diversità. Riconosciamo e accettiamo il fatto che in realtà l’altro ci aiuta, spesso  senza neanche volerlo, ad individuare meglio la nostra personalità, ciò che vogliamo, ciò che desideriamo, dove stiamo andando. Il famoso psicologo contemporaneo James Hillman sintetizza bene questo concetto: Non possiamo conoscere noi stessi per mezzo di noi stessi. Possiamo rivelarci a noi stessi solo attraverso l’altro. 

Questo processo può essere facilitato dalla comprensione che non siamo delle individualità e che anche il nostro  ideale di coppia si è formato sotto l’influenza di molti fattori: società, famiglia, religione, tanto che potremmo chiederci se siamo proprio sicuri che si tratti del “nostro” ideale.

Un’ultima riflessione: la nostra cultura tende a dare molta enfasi alle emozioni e ai sentimenti. C’è spesso l’assurda convinzione che la sofferenza generatasi da un’evenienza negativa qualsiasi sia un indice per valutare l’intensità del sentimento, in altre parole: più si soffre più vuol dire che si è innamorati. Non suona un po’ “strano”? In realtà, infatti, più si soffre più vuol dire che abbiamo proiettato sull'altro la realizzazione, il compimento della nostra felicità. Come si può ovviare a tutto questo? Meglio non concentrarsi sulle emozioni, ma, come dicevamo, usare l’altro come specchio, in modo disincantato, per riuscire ad esaminare le “immagini”, le rappresentazioni più o meno realistiche che abbiamo creato nella nostra mente. Grazie a questo “spostamento di attenzione”, abbiamo l’opportunità di conoscere meglio noi stessi, le nostre idee precostituite, le nostre proiezioni, e di evitare i tanti amori “impossibili”.

Questo ci porta ad un altro strumento poco evidenziato nella nostra cultura: l’importanza di un pizzico di follia che ci permette di cambiare punto di vista e di non farci “trascinare” dalle emozioni, ci aiuta ad abbattere la ragionevolezza e la logica dei nostri schemi e delle nostre proiezioni che il nostro sistema pretende di applicare anche al rapporto amoroso.

Ricordiamoci che la volontà di amare e il “comandamento di amore” sono regole che l’amore proprio non sopporta.

 

Elio Occhipinti