Melanconia e immaginario alchemico

 

di Elio Occhipinti

 

Se l’anima esiste un mondo che le è proprio e dal quale essa proviene?

Questo mondo è stato chiamato da culture diverse (dai latini ai musulmani sciiti) mundus imaginalis. Si tratta di un luogo diverso dalla realtà che ci circonda, è un mondo diverso da quello che conosciamo.

Fatta questa premessa, possiamo occuparci della malinconia in un modo diverso, diverso anche dalle modalità della psicologia classica.

La parola melanconia deriva dal greco mélas, nero, e cholé, bile. In un primo tempo questa parola veniva utilizzata per descrivere malattie del fegato. Quando quest’organo è colpito inoltre la persona perde l’intenzionalità, non ha più voglia di fare, non sostiene più i propri progetti e si abbatte. Da qui il collegamento tra il primo significato della parola a quello attuale.

La persona malinconica è triste (ma non ancora depressa), ha ancora voglia di fare, ma si chiede il perché, a quale pro.

Come dicevo, questo “veder nero” non è ancora patologico, ma la persona vive una profonda insoddisfazione, prova la netta sensazione di non essere a casa propria, senza sapere dove questa si trovi, e nonostante ciò sente il desiderio di volervi tornare.

Tale insoddisfazione può farsi sempre più profonda fino a creare sofferenza anche alle persone che vivono accanto al malinconico.

Se non si riconosce questo stato, si possono generare rapporti conflittuali con gli altri, soprattutto in una società come la nostra dove vige il diktat di dover star bene a tutti i costi, dove l’efficientismo è fondamentale, altrimenti, è meglio prendere una pillola; ormai abbiamo una pillola per ogni disturbo. Il messaggio di fondo, che passa addirittura attraverso un certo tipo di film è che bisogna star bene qui.

Nel malinconico non si ravvisano cause effettive per le quali si può affermare ch’egli non sta bene dove vive, infatti, riesce a svolgere i propri compiti: lavora, vive una vita sociale… ma tutto questo, come dicevo, non dà vera soddisfazione.

La psichiatria ha tentato una sua risposa in termini di squilibrio biochimico  e così la psicoanalisi che ha ravvisato nell’infanzia accadimenti traumatici tali da influenzare tutta l’esistenza del soggetto. La filosofia ha invece giustificato la sensazione di disagio e si è adoperata per capire da dove esso venga, non ricercando nell’infanzia, bensì cercando di comprendere le dinamiche interiori che sembrano appartenere ad altre realtà diverse da quella che giornalmente ci circonda.

Partendo dalla convinzione che l’anima esista possiamo affermare che il disagio di cui stiamo parlando non appartiene alla psiche, bensì dell’anima.

Negli ultimi trecento anni vi è stata una rivoluzione nel concepire l’ordine delle cose che ha portato l’uomo ad essere posto al centro dell’Universo, creando così uno squilibrio tra le molteplici altre forze anch’esse presenti nell’Universo. Conseguenza di ciò è che l’uomo è diventato l’unico responsabile di tutto ciò che accade.

Possiamo spingerci più oltre: i concetti di vita e di morte non avevano un tempo il valore che gli attribuiamo oggi: bisogna vivere, mantenersi in salute ad ogni costo, la morte esiste ancora? Se c’è, facciamo finta di non vederla.

Come conseguenza di ciò tutti i disagi vengono attribuiti all’individuo come unico responsabile del suo stato, egli non è stato in grado di reagire, di adattarsi, di adeguarsi. Sta male? La colpa è solo sua.

Ci siamo dimenticati che non siamo al centro dell’Universo; vi sono altre forze, tra le quali l’anima, che vivono nel proprio mondo, metafisico.

L’anima, dal proprio mondo, tenta di comunicare con questo mondo mandando dei segnali, che si traducono nell’individuo in segnali di disagio. In realtà, non siamo noi, ma la nostra anima che è in disagio e riflette questo suo stato in noi.

Alla luce di ciò, la parte fondamentale di noi stessi non è il nostro ego, ma qualcosa che ci è ancora nascosto, e che però di tanto in tanto si manifesta, per esempio nella nostra personalità.

Basta pensare agli artisti che quando creano è come se non fossero più loro. Pensate che sia il loro ego, la loro infanzia, i loro traumi a creare? Oppure, pensiamo a quando ci innamoriamo: una persona che si innamora è come l’artista, rompe tutti gli schemi e si dimentica di se stessa.

Gli studiosi si sono occupati di chiarire da quale parte del nostro cervello provenga un tale comportamento, ma le risposte individuate non aggiungono nulla, non spiegano davvero, anzi, semmai ci privano di qualcosa, ci privano del mistero.

Nella mitologia antica, gli dei che provocavano questi stati erano Pan ed Eros (quest’ultimo, prima che fosse trasformato nel putto con le ali che tutti conosciamo); entrambi creavano e distruggevano, conquistavano gli animi altrui e scatenavano una furia annientatrice. Ritroviamo gli stessi fattori creatori e distruttori nei momenti in cui siamo “fuori di noi” in cui si rompono gli schemi, in cui l’artista crea, in cui ci innamoriamo. Possiamo affermare che è in questi momenti che l’anima si manifesta in questo mondo, pur non essendo di questo mondo; ed è questo suo essere altrove che ci impedisce di comprendere la sua essenza con la ragione: non possiamo pervenire ad una definizione di anima, dal momento che per farlo useremmo uno strumento di questa realtà per spiegare un’entità che non le appartiene.

Il modo in cui concepiamo e pensiamo il mondo in cui viviamo è frutto della logica di Sant’Agostino il quale formalizzò Aristotele creando il metodo per il “buon ragionamento”. Questo ci allontanò da altre culture (quella orientale e quella mediorientale) nelle quali il valore evocativo delle immagini continuò a conservare una grande importanza tanto nella parola parlata quanto in quella scritta che ancora oggi trasmettono concetti attraverso le immagini e non attraverso il significato come fa invece il linguaggio della cultura occidentale.

Abbiamo visto che l’anima non si può comprendere con lo strumento razionale e tanto meno essa si esprimerà attraverso la ragione; quest’ultima tenderà ad entrare in conflitto, soprattutto in una società come la nostra nella quale dobbiamo esser in grado di controllare tutto. Se ci riflettiamo bene, siamo noi stessi i primi a castrarci non permettendoci comportamenti non approvati dalla razionalità ma che invece ci farebbero del bene.

La malinconia è di solito il primo segnale che l’anima dà ad una persona, è come se chiedesse: non stai bene qui?

Anche il Mondo ha una sua anima, la quale potrebbe interagire armoniosamente con quella dell’individuo se quest’ultimo la lasciasse esprimere.

Un modo per lasciar parlare l’anima è ad esempio la via artistica . Ricordiamo nell’antichità i culti dionisiaci, durante i quali ci si inebriava con il vino, e tutti quei rituali che portavano gli individui a “perdere la testa”, a “tagliare la testa, ovvero a fare per un po’ a meno della razionalità. Raggiungere questo stato è possibile anche oggi e si scopre così che esiste un mondo diverso, fatto di simboli, di bellezza e anche di bruttezza, tutto viene visto in un modo diverso, più “nitido”, ogni cosa acquisisce un senso, si “colloca”.

I veri filosofi moderni, quelli che stanno dando delle risposte di tipo “animico”, sono ormai i fisici, mentre la filosofia classica si è ormai dedicata allo studio del linguaggio.

Ogni giorno viviamo nella dualità e per avvicinarci all’anima occorre imparare a vivere in ogni situazione le due facce di ciò che ci circonda. In tutte le culture, soprattutto in quelle sciamaniche, si parla di uno stato “schizoide” il quale è raggiungibile accettando che il mondo è diviso e che l’individuo stesso lo è. Da qui accetteremo che una parte di noi possa stare bene in questa realtà e che un'altra cerchi l’altro mondo.

 

Descrizione della stampa di Dürer

In questa stampa, realizzata nel 1500, l’artista pone nel filatterio, retto da un pipistrello, la parola melanconia.

È l’aurora, il cielo è ancora scuro, ma si vede una luce, segno che qualcosa si sta risvegliando.

Ci sono due personaggi: in primo piano una figura grande, alata, non si sa se uomo o donna, o forse tutti e due. Si tratta dell’uomo nella sua vera essenza, alla quale egli tende. Il volto è scuro, accigliato, forse sta pensando a un problema che non riesce a risolvere, forse un problema di proporzioni dal momento che ha un compasso in mano, le proporzioni per uscire da una certa situazione. Il secondo personaggio è piccolo, anch’esso con le ali, seduto su una macina. È attivo, sta scrivendo, non si è fermato. La macina fa pensare che forse qualcosa è stato triturato, rotto, non c’è più.

Il problema da risolvere potrebbe essere collegato al cosiddetto quadrato di Giove le cui cifre sommate in orizzontale verticale e obliquo, danno sempre 34 (l’artista è riuscito anche a mettere uno accanto all’altro i numeri 15 e 14, così da dare l’indicazione dell’anno in cui la stampa è stata realizzata). La non risoluzione di questo problema potrebbe indicare l’incapacità di passare dallo stato saturnino della melanconia allo stato di Giove (diventare “gioviale”), simboleggiato dall’aurora che sta arrivando con la sua luminosità.

Questa tavola ha un contenuto alchemico molto forte e vi si trovano numerosi simboli: il crogiolo su un fuoco molto vivo, l’unico degli strumenti in funzione, che indica che un’operazione è in corso, gli altri strumenti sono stati abbandonati e giacciono confusamente per terra; il poliedro, è una pietra ma non ancora perfetta; il cane acciambellato che ricorda l’aurobos, il serpente che si morde la coda, simbolo dell’eterno ritorno; la sfera che indica la perfezione che però non è ancora raggiunta; la scala a sette pioli, simbolo classico della scalata (si pensi ai sette pianeti, i sette gradini…); la bilancia per cercare le giuste proporzioni; la clessidra simbolo del tempo, unità importante nel regno di Saturno; la campana che può indicare l’attesa di qualcosa che viene da fuori e il cui suono ne annuncerà l’entrata, oppure può indicare il momento in cui la nostra vita giungerà al termine.

 

Abbiamo detto che l’anima ha un suo fine, e che anche noi, il nostro ego, ne ha uno e così il nostro organismo ha il suo che è la morte. Possiamo chiederci cosa accade se vi è conflitto tra i diversi obiettivi, se l’anima spinge da una parte, verso il suo scopo, e il nostro ego dall’altra.

Potremmo usare l’immagine del capitano di una nave che crede di essere l’unico a doverla manovrare non sapendo che questa nave ha un pilota automatico. Il capitano, pensando di essere l’unico pilota, va nella propria direzione, mentre il pilota automatico ha una rotta definita. Si crea un forte conflitto e un altrettanto forte disagio, si comincia a pensare di non essere in grado di manovrare la nave, senza che venga il sospetto che ci sia qualcun altro che manovra in senso opposto, verso una meta diversa, più duratura, più “essenziale”.

Il saggio è colui che ha capito che esiste un altro pilota, l’anima, ed ha anche capito dove questa voglia andare, ed allora decide di fare il mozzo, aiutando durante il viaggio.

Possiamo pensare che l’anima sia immortale (e quasi lo siamo anche noi dal momento che siamo fatti di una materia, gli atomi, che vive centinaia di migliaia di anni) e che si serva di noi come sue manifestazioni.

Tutte le religioni in origine sono state portatrici del sapere profondo della reale struttura del mondo dell’anima, solo in un secondo momento si sono rivolte all’aspetto etico e normativo. Esse hanno preso avvio da persone che hanno visto e capito la vera natura intrinseca del tutto.

In tutte le tradizioni, la persona saggia è colui che riesce a comprendere e che in seguito ricerca l’unità. Questa può essere cercata utilizzando le pratiche introdotte dalle varie tradizioni per dare un strumento che venisse in aiuto a quanti nel loro stato di malinconia volessero sentire l’anima. Pensiamo alla meditazione, all’eremitaggio, allo studio dei testi, all’addestramento nelle arti come la poesia e la pittura (mandala, icone), alla magia (ricordiamo i tre magi che adorano il Cristo in una grotta e che, proprio in quanto maghi cercano attraverso la natura di comprendere le leggi dell’universo), all’astrologia che studia come gli astri, considerati da un punto di vista animico, possano influenzare l’esistenza umana, ed in fine pensiamo all’alchimia che cerca di risvegliare l’anima nella materia affinché essa a sua volta aiuti il processo di elevazione del praticante (dice la pietra all’alchimista: “Aiutami che io ti aiuterò”).

Un ultimo monito: l’anima non ha niente a che vedere con il cuore, almeno non nel senso in cui lo pensa questa nostra cultura molto romantica. L’anima si può manifestare attraverso il cuore, potremmo anche dire ch’esso è uno dei canali privilegiati, ma il cuore rimane diviso, lo è fisicamente, ha una sua dualità. Anche la medicina tradizionale cinese riserva al cuore un posto di rilievo, esso è il principe di tutte le energie del corpo, e tuttavia un principe può essere un governante buono o cattivo. Facciamo dunque attenzione a non incorrere in simboli e metodi sbagliati, i metodi proposti dalle grandi tradizioni sono in realtà molto semplici, è solo la nostra razionalità che li vuole rendere complessi.

Ciò che propongo è frutto di un personale cambiamento, avendo vissuto in prima persona gli stati che abbiamo descritto. Mi piace pensare di trasmettere ad altre persone malinconiche il messaggio che non sono sole e che pensare di star vivendo un disagio di tipo psicologico appartiene al modo di pensare di quello che crede di star guidando la nave.

 

Domande

L’anima che continua a tornare non ci appartiene? C’è un legame tra quello che lei dice e le teorie sulla reincarnazione?

Non vorrei spingermi troppo in là, però posso dire che in tutte le tradizioni si afferma che l’anima torna e per farlo si serve di un mezzo.

 

Chi non soffre di malinconia è perché ha già superato questo stadio o è perché non è abbastanza sensibile?

Chi non soffre di malinconia è perché non è in contatto con l’anima. È però vero che vi sono persone più propense ad un atteggiamento malinconico per la loro stessa struttura costitutiva, ci sono i cosiddetti saturnini o polmonari.

Tutti quelli che si impegnano in un cammino posso dire che passano da questo stato; è come se fosse una tappa obbligata o meglio necessaria, grazie alla quale si entra in contatto con il nero che è in noi, se si vuole con il nostro “sporco”. Bisogna entrare nella grotta, nella caverna, perché il tesoro è lì, la Luce è lì, nascosta nelle tenebre.

Spesso, purtroppo, chi si occupa di cose spirituali, cerca di lasciar da parte le situazioni “nere”, credendo di dover pensare solo all’”amore”, al bello.

 

Potremmo definire il concetto di anima? Perché ognuno ne ha uno proprio. Vorrei anche sapere a che cosa serve vedere la Luce, è una tendenza intrinseca oppure è solo per “stare bene”?

Fortunatamente, non c’è una definizione dell’anima, altrimenti la ridurremmo a qualcosa che può essere compreso dalla ragione. Se vogliamo, possiamo pensarla come un qualcosa che sta vivendo in un’altra dimensione e che affronta un percorso proprio.

Gli individui, dotati di anima poi, possono “riconoscersi” perché hanno raggiunto le stesse tappe ed entrano in contatto, si riconoscono con l’anima.

Tutte le volte che si cerca di definire tramite la razionalità una realtà appartenente al mondo simbolico, il simbolo stesso perde la propria capacità di evocazione.

Per quanto riguarda la seconda domanda, l’avvicinarsi a un percorso spirituale non è una scelta che si fa razionalmente, anche perché non appena la facciamo cominciano i guai, sia fisici che interiori! Certo l’ego può concorrere in quanto vede il tutto come una possibilità di elevarsi al di sopra degli altri.

Inoltre, tutti i percorsi si fanno da soli, al massimo si possono avere di tanto in tanto dei compagni di viaggio, può arrivare anche un maestro. Si dice: “Fortunato il maestro che ha un allievo”, infatti, sebbene diciamo di voler tanto un maestro che ci guidi, non siamo davvero disposti a fare i discepoli.

La via spirituale dunque non serve al nostro ego che è attaccato duramente, forse serve agli altri perché siamo un po’ migliori.

 

Dobbiamo sottometterci al volere dell’anima?

Dovremmo assecondare la nostra anima, essa ha comunque a che fare con noi in quanto insieme di mente, corpo, ecc. Io credo che sia piuttosto necessario un incastro delle due parti, di noi e dell’anima, senza che la nostra parte “fisica” diventi passiva. Non distruggiamo l’ego, ci serve, c’è bisogno di norme, del lavoro, di obiettivi. Tutto ciò serve a vivere in questo mondo, ma bisogna pensare che non è l’unica realtà, poiché ve n’è una pregna di maggior senso.